giovedì, Novembre 21Città di Vittoria
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c) Il Grande Baglio

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Il grande baglio della Scaletta dei Ricca.

Lungo la strada per Gaspanella, all’incrocio con l’antica strada che da Scicli passando per Cammarana proseguiva verso Terranova, si estendevano le terre della Scaletta, appartenenti alla Contea e site a fine Cinquecento nel territorio di Chiaramonte. Della Scaletta abbiamo notizie già nel 1599 e nel 1612, quando le terre della Scaletta, Alcerito, Albanello e Suvaro Torto (per 309 salme) furono concesse in affitto al dr. Matteo Elia, di Chiaramonte. Pare però che questo dottor Elia (detto nei documenti in vario modo Lio, o Lia o di Leo o di Lia) abbia esteso parecchio i confini delle sue terre; pertanto, a seguito di una rimisurazione, il di più gli fu tolto.
E questo di più nel marzo 1649 fu dato per tre anni in affitto a Filippo di Marco (1618-1679), ricco comisano residente a Vittoria. Si trattava di ben 215 salme di terra nelle contrade dette della Scaletta, Albanello, Arciarito, Suvaro Torto, appartenenti al feudo di Boscopiano per una gabella di 125 onze l’anno. In seguito, tali terre pervennero al modicano  don Giovan Battista Ricca, che nel 1696 le vendette per onze 1871 all’omonimo don Giovan Battista Ricca di Vittoria. Alle terre, estese per 294 salme con Suvaro Torto, era legato il titolo onorifico di barone, che da quel momento passò all’acquirente[1].  Il caseggiato consisteva «in diversi corpi officini e baglio» nel 1714, che nel 1748, nel rivelo di don Enrico Ricca, vengono meglio descritte come case di 12 stanze terrane, palmento, baglio, 5 stanze per gli operai, le stalle, una chiesuola dedicata a Santa Maria delle Grazie. In più si parla di una torre.

Nella tenuta dei Ricca, coperta da grandi estensioni di vigneto, numerosi carrubi, sugheri etc. si coltivavano olivi e mandorle. In un documento di fine Settecento, e cioè il Rivelo Cenzuario (1769-1802), relativamente alla Scaletta, si parla di una contrada detta del Lambico, cosa che ci induce a pensare alla presenza di una rudimentale distilleria. Domenico Sestini, parlando del territorio di Mascali, dice che ci sono «poi da 60 Lambicchi di rame di capacità ciascheduno di Salme 6 a 12, e con questi si fa una gran quantità d’acqua vite, e dello spirito di vino, che si trasporta fuori Regno…». Non sappiamo se alla Scaletta ci fosse questa attrezzatura, però c’è un termine dialettale, diffuso anche da noi, che è derivato dall’antichissimo uso di alambicchi: allammicarisi (desiderare ardentemente e piatendo una cosa), un intensivo derivato da allammicari, “distillare col lambicco”, da llammicu, angoscia, struggimento: tutti derivati da quel processo goccia a goccia.

L’alambicco era generalmente composto di tre parti: la cucurbita o caldaia, che si esponeva alla sorgente di calore e che conteneva il liquido da distillare; ad essa si sovrapponeva il duomo o capitello o elmo, per lo più di forma emisferica, da cui si dipartiva il condensatore, che poteva essere costituito da un serpentino immerso in acqua, ovvero di un semplice tubo raffreddato ad aria. Quelli di Mascali, di rame, dovevano essere grandi, per contenere da 6 a 12 salme e se Sestini pone a base la salma palermitana di 275 litri, un alambicco poteva contenere da 16 a 32 hl.
Oggi il grande baglio della Scaletta è abbandonato, ma meriterebbe, per il suo passato, di essere salvato e tutelato dal degrado e dall’abbandono. 

 

 

 

NOTE

1]Le terre confinavano «con le terre dell’Acciarito Serra del Mangano feghi di Dorillo…».

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