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a) La Valle in Uggeri

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La valle in Uggeri 1961.

Dobbiamo ad un giovanissimo Giovanni Uggeri[1] uno studio completo, ricco di spunti suggestivi sulla flora della regione camarinese agli inizi degli anni ’60, uno studio che mantiene anche oggi una sua grande attualità. Dopo aver richiamato l’idea che ancora nel Cinquecento agli occhi dei viaggiatori apparivano «i boschi molto folti e ombrosi, i quali rendon molto spavento a chi li mira» (Camiliani), l’autore precisa che «questa macchia cinquecentesca non è che uno sviluppo post‑classico anche in posti ove prima era fiorita la vita. Ben altro aspetto presentava la regione camarinese all’avvento dei coloni greci verso il VII secolo avanti l’era volgare. L’originaria foresta di Leccio e di Pino d’Aleppo si stendeva ancora su una buona parte del territorio, impenetrabile. Due climax le erano caratteristici: il Querceto, a Nord‑Ovest della valle dell’Ippari, la Pineta a Sud‑Est. La distinzione ‑ va da sé ‑ non può essere assoluta, ma va tenuto presente che l’ambiente geografico segna lungo questa linea un marcato discrimine, che dalla zona più umida e nord‑occidentale del Querceto separa la zona più arida e sud‑orientale della Pineta, su un terreno quest’ultima parte marnoso, parte nettamente calcareo».

E ancora: «La valle dell’Ippari, con i suoi affioramenti marnosi e gessosi, segna a ragione il trapasso tra i due ambienti e difatti il Querceto, che scendeva un tempo alquanto più a Sud di questa, fino ai piedi degli Iblei, vi è stato in un secondo tempo soppiantato dal Pino, che già vi vegetava allo stato endemico, ma che dopo la distruzione del fitto manto arboreo ha preso il sopravvento definitivo sulla Quercia, i cui giovani rigetti non solo abbisognavano d’ombra per svilupparsi, ma nello stesso tempo trovavano, nel profondo spacco operato dall’Ippari nel bassopiano camarinese un terreno poco propizio, che si ricollegava al più meridionale ambiente miocenico».

Inoltre: «…Il clima arido della regione iblea vide dominante in età an­tichissima la foresta di Pino, ricca di altre essenze proprie di quell’ambiente dell’oleo‑ceratonion, che in seguito è prevalso sulla Pineta, rimasta man mano confinata nel­l’area estrema, cioè nella zona più marnosa e meno arida. a contatto con l’area della Sughera, lungo la valle dell’Ippari. Il Carrubo (Ceratonia siliqua), essenza più orientale, più arida, forse non originario, ma introdotto nel­l’isola dai Greci, ha preso il sopravvento nella zona più sassosa, più meridionale; nel resto del territorio l’olivo (Olea europaea) e ‑ specialmente a oriente‑ ‑ il Man­dorlo (Amygdalus communis). A tutti e due i tipi forestali si devono invece ritenere associate già inizialmente le essenze indigene del «Piraino» (Pirus communis), del Melo (Pirus malus), del Lazzeruolo (Crataegus aza­rolus), del Fico (Ficus carica), caratteristiche della nostra macchia più antica. L’inaridimento successivo di tanta parte delle nostre contrade, man mano che si veniva distruggendo il manto boschivo, ha portato alla formazione di vaste aree a bassa vegetazione, ove domina la Palma nana (Chamaerops humilis) e ‑ veri testimoni della scomparsa foresta Sughera ‑ il Lentisco (Pistacia lentiscus) e il Mirto (Myrtus communis). Già gli antichissimi pastori della Sicilia pregreca si erano aperta la via tra le nostre foreste creando dei tratturi che ‑legando le varie radure liberate con il fuoco‑ li accompagnavano dalle zone montuose alla marina. Ma l’opera di sboscamento è dura­ta ininterrotta almeno sino all’avvento dei Romani ed è stata ripresa ancora in tempi a noi vicini; vaste zone mostrano evidenti i segni di questo successivo incendio: una steppa rotta solo dalle Ferole (Ferula communis) e dagli Asfodeli (Asphodelus ramosus, Asphodelus mi­crocarpus).

L’epoca greca conobbe un’intensa fioritura di vita in tutta la regione, non solo lungo le fertili vallate, ma an­che sparsamente per il bassopiano, specie lungo le mag­giori arterie del traffico regionale. Sola porzione notevole di bosco in cui forse non si addentrarono i Greci fu quella compresa tra le odierne contrade di Sugherotorto, Dirillo e Craparo. L’età romana non segnò notevoli progressi nell’avanzata dell’uomo, in genere anzi ci si limita ai fon­dovalle irrigui e per i campi di cereali alle aree aperte con il fuoco nelle zone sovrastanti, ove la gariga aveva gene­ralmente soppiantato i coltivi greci. Ma man mano la vita si lega sempre più strettamente alle “Cannavate” e alle “cave”, alle solitudini rupestri: molti campi ormai insicuri vengono abbandonati, le impenetrabili macchie di Lentisco e di Quercia minacciano persino le antiche strade. Così, con l’evo barbarico anche zone di ricche culture dell’età classica ritornano preda del bosco: in genere non un ripristino di quello antico, ma bensì una macchia dovuta specialmente all’inselvatichirsi delle specie arboree dell’oleo‑ceratonion. Tuttavia anche le Sughere segnano un notevole progresso sulle ampie distese pianeggianti; nelle antiche carte una vasta zona della nostra provincia è indicata appunto come selva di «su.ri» («su[va]ri», n.d.a.).

E infine: «Elementi preziosi della vegetazione vecchia e nuova della nostra plaga potrà fornirci l’indagine toponomastica, specie se essa si addentrerà nelle zone più remote della ricerca etimologica. Un toponimo antico come Camarina non si può escludere, ad esempio, che derivi da quella diffusissima macchia ad Euforbia, che all’occhio dei naviganti appariva ‑ in contrasto con le circostanti sabbie semidesertiche- come un rigoglioso manto verde chiaro, grazie alle glauche fronde tondeggianti della venefica pianta ben nota all’antichità».

 

 

NOTE

1] Giovanni Uggeri, La regione camarinese, La Lucerna, V, 1961.

 

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