Il paesaggio agrario nei secoli.
Il paesaggio della Valle deve moltissimo ai nuovi dominatori mussulmani che, sbarcati nella Sicilia bizantina dall’827 in poi, non portarono solo morte e distruzione, ma anche vita e innovazioni agrarie profonde. E la loro presenza feconda è impressa anch’essa nelle denominazioni dei luoghi e soprattutto nella pratica dell’irrigazione che essi portarono alla perfezione nel nostro territorio, ricco d’acqua, tanto che dai nomi delle fonti è possibile ricostruire la storia. E così al greco bizantino Cifali (che deriva dal greco classico kephalé), cioè “testa (dell’acqua)”, si affiancano i nomi in cui compare la parola donna (così il dialetto ha storpiato l’arabo ayn), che indica anch’essa l’acqua, la fonte. Altri toponimi indicanti sorgenti sono quelli del tipo favara, favaraggi o favarazzi, favacchio, favarotta[1]. Ma l’importanza degli Arabi per noi sta anche nel fatto che da essi deriva tutta la nomenclatura essenziale del mulino ad acqua, a dimostrazione che il nuovo e notevole sviluppo dell’agricoltura irrigua nella zona fu a loro dovuto.
Si tratta di parole entrate nell’uso dialettale, come senia (in italiano noria, strumento per sollevare l’acqua, con ruote verticali ed un sistema di secchi); gebbia (cisterna più o meno grande, all’aperto); saia (canaletto talvolta sopraelevato); battali e salibbi (canali scavati nella roccia). Grazie a queste innovazioni tecniche, fu possibile l’introduzione di nuove coltivazioni, che col tempo caratterizzarono il paesaggio agrario della valle del fiume di Cammarana. Oltre agli aranci e ai limoni gli Arabi introdussero la coltivazione di piante medicinali, tessili, ornamentali: la palma da dattero (essa ancora svetta in numerosissime ville di campagna), il lino e il cotone (in aggiunta alla canapa, già coltivata in epoca bizantina), la canna da zucchero, l’azeruolo (in dialetto nzalori, frutto ormai quasi scomparso dai nostri giardini), il ribes, il melone d’inverno, il sommacco, forse il riso (anch’esso noto già in epoca bizantina), il sesamo (senza il quale non esisterebbe la giurgiulena), nuove qualità (come si deduce dai nomi arabi) di carrubo, carciofo, melanzana, bietola, veccia. Inoltre fu introdotta la coltivazione di varietà di ciclamino, caprifoglio, asfodelo, gelsomino, timo di Creta, ornitogalo, ricino, aloe, zafferano, storace. Stabile si mantenne nella Sicilia araba la coltivazione della vite, mentre scarsa fu quella dell’olivo. Dai toponimi si può anche risalire alle coltivazioni. Ad esempio la contrada Monacazza o Monacazzi ci riporta alla munàca, un luogo dove si teneva a macerare la canapa, mentre è facile connettere “Risera” e “Aranci” con le rispettive coltivazioni[2] (ampie risaie di proprietà Pancari esistevano in contrada Salina nella seconda metà dell’Ottocento).
Per quanto riguarda la vegetazione, i Pini d’Aleppo rappresentano oggi l’aspetto più interessante della valle, insieme al suo sottobosco, che varia in funzione della presenza o meno di un substrato di arenarie e trubi, ma nel passato c’erano anche maestosi pioppi (àlbani), nelle terre del Passo di Camerina o Colobria (o Culorva), dove sugli affioramenti calcarei in passato si ergeva anche una maestosa pineta accompagnata dal corteggio del sottobosco con esemplari secolari di lentisco, mirto, rosmarino e sovente associati a lecci, olivastri e carrubi. Per la pineta presente lungo la valle dell’Ippari è stata ipotizzata un’origine autoctona, residuo delle foreste planiziali di Santa Croce e di Vittoria[3]. Scomparse da tempo a causa dell’uomo le grandi dune di Cammarana, trasformati i Macconi della Berdia e dell’Alcerito dalla serricoltura, sono anche sparite le vegetazioni proprie delle dune «di arbusti piccoli e sparsi di erica multiflora, di cisti, di rosmarino, della…palma nana… e dell’asfodelo», con la relativa fauna del «coniglio selvatico…, l’occhione…e l’averla»[4].
Prosciugata ai primi del Novecento la palude di Cammarana (produceva ottime anguille) e gli altri stagni, molte terre un tempo occupate dall’acqua sono oggi coperte da un mare di serre di plastica. Eppure fino a qualche decennio la zona verso la foce del fiume era piena di canne palustri e di giunchi, mentre ai margini delle acque stagnanti crescevano arbusti di tamarisco (vruca) e isolati pioppi coperti di edera. Nelle acque melmose sostavano «beccaccini…e tra giunchi e canneti il migliarino di palude, il cannareccione e il forapaglie inseguono zanzare e libellule. Fra le alte erbe degli spazi asciutti sono frequenti il frullo rumoroso della quaglia ed il verde guizzo del ramarro, mentre le rondini marine…volano tutto il giorno avanti e indietro sopra le acque» (Antoci 1975).
NOTE
1] La fascia di campagna tra Comiso e Chiaramonte è ricca di toponimi di origine araba: Donnagona; Fegotto (da fichat, cioè luogo spianato artificialmente); Coffa (“sporta”, con il diminutivo Coffitello); Donnadolce; Billona; Cascalana, Favaraggi etc..
2] Anche se bisogna usare prudenza: ad esempio proprio nel caso del nome della contrada Aranci, esso potrebbe derivare sia dal nome di un antico colono Arancio, sia anche dai granchi fluviali, aranci in dialetto…
3] Di Maio Maria Carolina, La R.N.O. Pino d’Aleppo… in La Valle dell’Ippari e il contributo scientifico di Girolamo Giardina, Atti del convegno, Vittoria 24 novembre 2007.
4] Francesco Antoci, Aspetti naturali della provincia di Ragusa, Paolino Editore 1975