Le leggende del promontorio di Cammarana.
Ma la nostra Madonna non è un pallido riflesso di antiche e comuni tradizioni siciliane.
I riferimenti di Pitré collegano la festività dell’Assunta ai culti agrari del mondo siciliano dell’epoca greco-romana, collocandola appunto nel momento di passaggio dal paganesimo al cristianesimo, ma le particolarità del culto la daterebbero invece all’epoca normanna (cfr. Monello 2000). Il culto dell’Assunzione infatti, pur nato nel V secolo, fu compiutamente elaborato solo nel IX e si diffuse in Sicilia con i Normanni nel XII secolo. Per la datazione del culto a Cammarana, sia le notizie storiche (il cenno alla torre di Cammarana nell’accordo di Castrogiovanni del 1362), sia le leggende a noi note sembrerebbero confermare l’ipotesi tarda (XIV-XV secolo).
Infatti ancora su Cammarana riporta Pitré:
«In parecchi comuni della provincia di Siracusa [oggi Ragusa] corre la credenza che a Camarina presso Scoglitti sia un tesoro nascosto, il quale non potrà essere disincantato se non la notte dal 14 ai 15 agosto da chi, presa moglie, non si sia pentito del matrimonio; ed è volgare il proverbio: ‘Cui si marita e nun si penti, pigghia la truvatura di Cammarana’.
Dice la tradizione che i Turchi una volta, distrutto un tempio che colà era, gettassero a mare una statua della Madonna, insieme con le campane della chiesa. Ogni anno, nella notte che precede la festa, si ode in quel sito un grande rumore, e suono cupo di campane, di ori e di argenti».
Noi però sappiamo che nella chiesa c’era un gran quadro e non una statua. Se la leggenda avesse un fondamento, dovremmo ammettere che, prima del quadro, oggetto del culto fosse una statua. In tal caso l’eventuale distruzione della chiesa e l’immersione sia della statua che delle campane sarebbe dunque di epoca quattrocentesca, coincidendo con le incursioni turche dei decenni precedenti la caduta di Costantinopoli del 1453…Altro termine di riferimento puramente indicativo potrebbe essere il 1399, anno di una violenta incursione sul litorale di Terranova ad opera di pirati saraceni (“Turchi” in genere), di cui è traccia in un documento pubblicato da Raffaele Starrabba nel 1876 (Dufour-Nigrelli, 1997), cosa che avrebbe potuto coinvolgere anche Cammarana, la cui torre era costruita all’estremità meridionale del golfo di Terranova.
Corrado Melfi scrive che dopo il 1530, a causa delle frequenti scorrerie dei Turchi, la funzione difensiva nella zona, oltre che dalla torre di Cammarana, era svolta anche dalla chiesa che con la sua campana avvertiva «le genti dello sbarco dei turchi, affinché i cristiani trovassero salvezza. Talché i nostri pastori i quali fra le folte ombre delle quercie e dei sugheri nella solitudine e nella quiete passavano ivi l’inverno con i loro armenti al suono della campana, sorpresi dalla paura, erano costretti ad abbandonare quei luoghi».
Al ruolo della campana si riferisce anche una canzone popolare -anch’essa riportata da Melfi (pag. 85)- che così recita: «Allarmi allarmi ca la campana sona/, li Turchi sunu junti a la marina, cu avi li scarpi rutti si li sola /ca iu mi li sulai sta matina». La canzone popolare si riferisce necessariamente a episodi precedenti il Cinquecento, perché per quel secolo le fonti attestano una violenta incursione di “Turchi” (pirati algerini) solo nel 1591, mentre la torre di Cammarana era stata bombardata dal pirata Ulucchiali (Euldj Alì) negli anni Ottanta (cfr. Bonaffini 1983).
Pertanto, se le testimonianze letterarie e iconografiche del culto si riferiscono ai primi decenni del Cinquecento, probabilmente la leggenda si sviluppa dopo incursioni piratesche verificatesi tra gli inizi del XV secolo e gli inizi XVI. Dunque la leggenda della campana sommersa ci porterebbe al Quattrocento…
Tale leggenda e «il suono cupo di ori e di argenti» nel fondo del mare, richiamano l’altra leggenda, assai radicata, detta di Re Cucco, che parla di immensi tesori in una caverna sottoterra, nei pressi del cosiddetto papallosso, cioè i resti dell’antica torre di Cammarana sul promontorio. La tradizione narra dei vani tentativi di conquistare l’immenso tesoro custodito in una grande caverna, cui si accede attraverso un labirinto di passaggi e cunicoli sotterranei. «Ammucchiato al centro di essa, su una pelle di bue, c’era un tesoro, il tesoro di Re Cucco: oro, brillanti, argento e marenghi… Ma per entrare e uscire incolumi, occorreva conoscere la ‘magia’». Così Virgilio Lavore, che riporta la “formula magica”[1]…Sia la prima che la seconda leggenda, moderna nell’elaborazione dialettale in rima delle “parole magiche”, sono senza dubbio frutto dell’antica frequentazione e dei ritrovamenti che nel corso dei secoli, specie dal XVI in poi, e soprattutto nel XVIII con i saccheggi del principe di Biscari, le necropoli camarinesi hanno offerto. Lo stesso Lavore riporta le parole di Pace che, convinto della totale distruzione della città nel 258 a. C., scrive a pag. 142 della sua opera su Camarina: «…non rimase nella città traccia di vita. Solo qualche grama famiglia di pastori e di pescatori venne a rifugiarsi fra le rovine e nei suoi immediati dintorni. La piccola catacomba del Rencucco e i tenui detriti che la circondano devono riferirsi a bassa età romana o bizantina…Questa piccola grotta naturale, profonda m. 6 circa e larga poco meno del doppio, presenta qualche rude adattamento a catacomba, specie in tre recessi arieggianti ad arcosòli polisomi…La leggenda colloca in questa grotta i tesori di Re Cucco o Rancucco: nome che io credo di origine iconografica, creato per un popolaresco riferimento ad un re dei bronzetti camarinesi con la civetta, in dialetto cucco».
Qualcosa intorno al proverbio, che è anch’esso connesso con il tesoro, un tesoro così inarrivabile che solo un uomo “eccezionale” può conquistarlo. Prima dell’epoca delle gesta dei Paladini dipinte sui “carretti” (pieno Ottocento), l’uomo “eccezionale” è il marito che “non si fosse mai pentito del matrimonio”: cosa assai difficile, a quanto pare, in una società che ci si rivela alquanto misogina, come si deduce dall’elaborazione del proverbio, che per iperbole afferma appunto l’impossibilità di trovare il tesoro di Cammarana, in quanto è impossibile non pentirsi del matrimonio!
Per avere un’idea del clima in cui un simile proverbio possa essere stato elaborato, basta leggere quanto dice sul ruolo del capofamiglia e sulla sua donna nelle “Parità” Serafino Amabile Guastella, dove persino la morte dell’asino è ritenuta più degna di essere compianta rispetto a quella della moglie…
Un’origine tarda del proverbio (Sette-Ottocento) sarebbe, a mio parere, provata anche da una sua variante raccolta da Giovanni Consolino nella sua opera Proverbi e modi di dire vittoriesi. Relativo alla serie “Marito-moglie-matrimonio”, Consolino riporta il seguente proverbio: Ku si marit(a) e nun zi penti, si v(a) a ssiggi cient(u) unz(i) o bbank(u) i Lontra. Cioè, è più facile andare a riscuotere cento onze al Banco di Londra, che non pentirsi d’essersi sposati, ripetizione del concetto dell’altro proverbio riferito da Pitré. Tale proverbio può essere entrato nel senso comune della gente solo in età settecentesca, poiché il Banco di Londra, meglio Banca d’Inghilterra, fu fondato nel 1694. E in ogni caso, la Sicilia conobbe una massiccia presenza inglese solo durante le guerre napoleoniche, quando le truppe di Sua Maestà Britannica occuparono l’Isola per proteggere i Borbone di Napoli in esilio a Palermo (1799 e 1806-1815).
Due recenti acquisizioni documentarie confermano e accrescono le testimonianze della grande devozione popolare di cui godette per secoli il culto di Cammarana. Il primo documento è contenuto in Vestru. Scene del popolo siciliano con copiose illustrazioni in dialetto, del prof. Serafino Amabile Guastella, pubblicato per la prima volta nel 1882, che raccoglie materiali risalenti, come dice l’autore, alla prima metà dell’Ottocento. Tramandati oralmente, essi affondano le proprie radici nei secoli precedenti. Il testo (trascritto dal dialetto in un italiano molto sicilianizzato) è preceduto dalla seguente precisazione dell’autore:
«La tradizione seguente mi fu narrata da Sebastiana Albani, intesa Tosca, buona e religiosissima donna… C’era ‘na volta una povera orfanella; e quest’orfanella era divotissima della gran Signora Maria. A malapena il sagrestano sonava la prima messa, essa aveva il fuoco alle gambe, si metteva la mantellina e in quattro salti era in chiesa. Essa a sentirsi la messa ogni mattina, essa ogni sera a pigliarsi la benedizione, essa il rosario ogni ventun’ora, essa a confessarsi e comunicarsi ogni sabato. Questa divota -mettiamo che si chiamava Giovanna- era bella, bella che non c’era la pari, una vera faccia di sole: ma il motto antico non fallisce: nelle povere la bellezza è difetto. Batti oggi, batti domani, ora una parola, ora un regalo, ora un’imbasciatella, che vuole? La donna è canna, e il diavolo si ficca dentro le cipolle. Insomma, la divota cascò. La poverella non ebbe più animo di raccomandarsi alla Madonna, e passava le giornate a piangere, che il pianto lavava le pietre, e quando iva a letto, dicea: Io vi ho abbandonata, ma voi, Madre santa, non avete ad abbandonarmi, ché io sono una povera peccatora, e voi la Madre della Misericordia”. Venuta l’ora del parto e soffrendo la poveretta le pene dell’inferno per tre giorni di seguito, la mammana le diceva:” comar Giovanna mia, perché non vi fate portare la catena della Madonna? Ve la posate sul ventre, recitate la litania, e in un Padre e Figlio, la creaturina vien fuori come un pesce. Ma la divota rispondea: sono una scelerata, e non merito la protezione della Gran Signora. Finalmente, come volle Dio, la creaturina uscì a luce, ed era un figlio maschio, ma era cento volte meglio se le moriva nel ventre. Potenza di Dio! era brutto come un serpente, e coperto dalla testa sino ai piedi da una crostaccia che faceva venire lo schifo. La puzza poi…la puzza!…parea aprirsi la carnaia dei poverelli. Alla povera madre le cadde il cuore in vederlo, ma se lo mise al petto, dicendo: E’ Gesù Cristo che me l’ha mandato così. Non lo baciò perché era ancora turco[2], ma gli diede il capezzolo. Passati quindici, o venti giorni Giovanna si armò di coraggio: pigliò il bambino in braccio, un pane nella sacchetta, la corona in mano, acqua ce n’è in ogni banda, e cammina, cammina arrivò a ripa di mare. Ora dicesi che nei tempi antichi in quella parte ove ora sono le maccuna ci era uno scoglio altissimo, e sopra quello scoglio avean fabbricata una cappelluzza a Maria Santissima Assunta; e le genti partivano da cento miglia lontano, e facevano filiere per ottenere la grazia. Come la divota arrivò, bacia piangendo le pietre della cappelluzza, e inginocchiandosi cominciò a dire con grandissima fede: o bella Madre Assunta, non mi avete a negare la grazia che vi domando, non me l’avete a negare. Levate la lebbra a questo innocente, e datela a me peccatora, datela a me, bella Madre. A malapena dice questa preghiera, solleva le braccia al quadro della Madonnuzza, ed ecco che il figlio, le cade a testa in giuso nel mare. La povera madre gettò una voce, che parse spiccicarsele l’anima, e si lasciò ire come una saetta per pigliare la creaturina. O Gran madre miracolosa! -(qui la narratrice piangeva)-. Il bambinello era vivo, e rideva amoroso amoroso, e agitava le manuzze in segno di contentezza. Dov’era ita quella crosta fetente? Era diventato lucente come un cristallo, e di tanto brutto che era, ora parea un bambino Gesù. Il mare, ove era caduto, la Madonna l’avea fatto seccare in un fiat. La divota si fece monaca di casa, e con l’andare del tempo il figlio si fece prete, e diventò Vescovo di Siracusa».
Dal testo apprendiamo una serie di interessanti notizie sul promontorio:
- l’antica abbondanza di acqua nella zona (la devota infatti prende con sé solo del pane);
- la descrizione, pur fantastica, della zona di Cammarana ci conferma che la chiesa era edificata nell’alto del promontorio, divenuto nella tradizione popolare “uno scoglio altissimo”;
- la “cappelluzza” di Maria Santissima Assunta era oggetto di culto da parte di tutte le popolazioni della zona (fino a cento miglia!);
- la Madonna era dispensiera di “grazie”;
- l’oggetto del culto era un quadro (di cui tramite Paternò conosciamo il contenuto);
- la Madonna interviene a “sanare” un bambino;
- il mare (o la palude?) si secca nelle dune, dette maccuna (il paesaggio doveva mutare in continuazione).
Il secondo documento testimonia il legame della chiesa con il fantasioso luccichio dei tesori “di ori e argenti” che brillava su Cammarana. Si tratta di una poesiola pubblicata da Giovanni Consolino nel 1987 (Poesia popolare…) che così recita:
«bbedda signura di la Kammarana,/ ka v’anu fattu na krisiula r’oru: / r’oru e dd’argentu su li kannilieri,/ l’apparatieddu di sita rrumana; /e cc’era m-parrinieddu, kuorpu santu, /k’avìia na kampana ppi srummentu;/ la missa vi sunava la campana / e ssi spincìia lu kalici santu, / bedda signura di la Kammarana».
Non sappiamo se la poesia, raccolta a Vittoria, sia di elaborazione locale (in tal caso non sarebbe anteriore al Seicento), oppure d’importazione da Chiaramonte, che aveva come sappiamo un forte legame con Cammarana, o da Ragusa. Dai versi apprendiamo che l’interno della chiesa era ben ornato di seta, anche se stentiamo a credere che i candelieri di una chiesa di campagna fossero d’argento…Prova ulteriore, comunque, di un forte sentimento di devozione nei confronti della “Bella Madre”, la “Bedda Matri” che nel dialetto invochiamo…
Dunque, attorno alla chiesa della Madonna di Cammarana, girava tutto un mondo fatto di devozione, corse di cavalli berberi, fiere, musiche, fuochi d’artificio. In uno scenario suggestivo: da un lato la palude, il mare e le grandi dune di sabbia lungo il litorale; dall’altro il promontorio, con la chiesetta, la torre, e gli imponenti resti di un passato antico e misterioso…
Una bella tradizione, nata nella nostra terra, che non merita di essere dimenticata.
NOTE
[1] Virgilio Lavore, Il tesoro di Cammarana
[2]Non si bacia il neonato prima di battezzarsi e lo si chiama turco sino a che non abbia ricevute le acque battesimali