giovedì, Novembre 21Città di Vittoria
Shadow

e) l’antico Cannamellito

Share Button

 

L’aeroporto nell’antico Cannamellito.

Pur non appartenendo oggi al territorio di Vittoria, non c’è dubbio che il nuovo aeroporto civile di Comiso è anche “cosa nostra” e non solo per la vicinanza, ma perché l’area in cui oggi sorge la struttura fino al 1937 appartenne formalmente a Vittoria e solo per motivi politici fu tolta al nostro Comune, grazie all’azione dell’archeologo Biagio Pace, allora deputato ed uno dei maggiori esponenti del Fascismo ragusano. In concomitanza infatti con la scelta strategica del governo Mussolini di creare un aeroporto al Cannamellito sin dal 1927, il Comune di Comiso lo stesso anno chiese di staccare dal territorio di Vittoria proprio le contrade Cannamellito e Serra Calcara per ettari 649 ed aggregarle a Comiso. Non se ne fece nulla, mentre le pratiche per la costruzione del nuovo aeroporto militare andarono avanti fino all’inizio dei lavori, nel luglio 1935 e furono portati avanti come se la zona appartenesse a Comiso1, espropriando 146 ettari di terreni alle famiglie Jacono e Ferreri di Comiso, Jacono Rizza, Benso ed altre di Vittoria. Poi con legge 10 giugno 1937, per intervento dell’on. Biagio Pace, i 620 ettari delle contrade Cannamellito e Serra Calcara passarono da Vittoria a Comiso (con un indennizzo per Vittoria di ettari 1040 su Biscari…). La contrada era prima nota con il nome di Bosco Rotondo. Di essa abbiamo notizia sin dal 1409, quando si individuarono i confini della foresta di Camarina o Boscopiano nel Quinterno dei feudi di Bernardo Cabrera (Monello), conte di Modica (cfr. Monello, L’eredità camarinese e l’invenzione del “reaedificetur Camarina”. La zona era coperta da boschi (da cui il nome), verosimilmente di querce da sughero (come per Boscopiano) ma fu coinvolta nel grande processo di frammentazione del feudo modicano iniziato nel 1550, quando 6 partite di terra furono assegnate a Bosco Ritondo (Sipione). Al momento della fondazione di Vittoria, i primi del Seicento, la zona era seminata ad orzo2 e sulle terre la Contea nel 1714 e nel 1748 pagava censi al Monastero di Santa Lucia di Siracusa3.

La nuova denominazione da Bosco Rotondo a Cannamellito è dovuta all’esperimento di coltivazione di canna da zucchero e produzione di zucchero fatto su iniziativa della contessa Luisa de Sandoval, moglie del viceré Giovanni Alfonso Enriquez Cabrera (1596-1647), figlio di Vittoria Colonna, fondatrice di Vittoria. Impiantato nel corso del 1641, il Cannamellito cominciò a produrre l’anno successivo e fu solennemente inaugurato nell’ottobre 1643, in occasione della venuta dei conti a Vittoria (dove alloggiarono nel castello per una notte). Per finanziare la assai costosa iniziativa (fu anche costruito un grande trappeto da zucchero), Vittoria contribuì con i terraggi pagati sulle terre dagli enfiteuti, il ricavato della gabella della macina dei due mulini, le entrate della Scaletta e quelle della vendita della giurgiulena, della tumminia (grano tenero) e delle ghiande prodotte a Bosco Rotondo4. L’investimento in un biennio (più di 3.000 onze) si dimostrò poco redditizio sia l’alto costo della manodopera sia per il clima dell’area, assai lontano da quello tropicale necessario alla produzione ottimale (del resto il Seicento fu un secolo di grandi freddi). Pertanto, già agli inizi del 1645, l’impianto fu smantellato e alla terra rimase il nome di Cannamellito (per notizie complete vedi box)

Box: L’industria dello zucchero a Vittoria (1641-1645)

La vicenda dell’industria dello zucchero a Vittoria, pur durata pochissimo, è esemplare ed interessante e caratterizza sin dall’inizio il nostro territorio come vocato a colture specializzate: vino, zucchero, pomodoro, fiori. Servendomi degli studi reperibili ecco quanto sono riuscito a ricostruire:
a) prima fase (1641-primi del 1643): gestione di fra’ Vincenzo Passanisi, barone della Fossa (cavaliere di Malta).
Nei documenti infatti sono riportate le spese per la preparazione del terreno (4 salme) a Bosco Rotondo, con l’aratura e la semina di 10 cantara e mezzo di piantime (un cantaro= 79 kg]. Per zappare e piantare i talli, furono acquistate 34 zappe nuove (a tarì 6.10 l’una) e per 14 di esse ci vollero i marrugghi nuovi (10 grana ciascuno), 12 chiantaturi di ferro (a tarì 1 ciascuno) ed un numero imprecisato di crovelle (tarì 2). Per adduvari gli uomini, fu incaricato tale Pietro Muccio, probabilmente un soprastante (curatolo altrove) per organizzare il lavoro (doveva essere a salario fisso, annuale, di onze 6). Preparato il terreno, «in aiuole quadrilunghe con larghi solchi nel mezzo per facilitare l’irrigazione attraverso i canali o saie predisposti attorno alle stesse aiuole, si fa piantagione tra febbraio e marzo». Secondo G. Bianca5«la canna da zucchero si propaga per mezzo di talli scapezzati dalle estremità dei vecchi fusti e che conservino tre o quattro nodi con le gemme corrispondenti. Questi talli…destinati a servir di pianoni, si raccolgono e si preparano contemporaneamente al raccolto delle canne in dicembre», cioè al momento della raccolta. I talli, così preparati, ulteriormente sfrondati e ridotti a quasi 25 cm. e ormai piantime, si piantavano in gruppi di tre a tre, a 30 cm di distanza l’uno dall’altro. Decine e decine di operai e anche ragazzi venivano impiegati per questo lavoro, con salari che andavano da grana 10 a tarì 2 al giorno. La documentazione riguarda le operazioni svoltesi dal mese di febbraio ai primi di maggio 1642 di tagliare (cioè preparare i talli riducendoli a piantime), piantare, zappare ed abbeverare. L’irrigazione continuava fino ai primi di ottobre. Per la preziosità del prodotto, fu necessario garantire anche la custodia delle coltivazioni. 20 persone furono impiegate per tagliare la canna (che veniva anche stuccata, cioè spezzata, c’erano infatti gli stuccaturi). Nel testo si definisce tecnicamente questa operazione, straxiari (strappare? mondare?); poi c’era lo scudari (tagliare la coda o cima o pennacchio), quindi il parari (sistemare a fasci), infine il carriari (portare al trappeto). Secondo Bianca, le canne venivano mozzate a fior di terra, piegandole (straxiari); quindi venivano tolte le estremità (scudari), per preparare la piantime per l’anno seguente.

In genere il raccolto si faceva a dicembre, ma probabilmente per il primo anno, la raccolta avvenne più tardi, se è vero che il prodotto fu portato da circa 150 muli e da decine di bordonari al trappeto del duca di Terranova ad Avola, con una notevolissima spesa, con salari giornalieri che andavano da tarì 2.10 a 4.10. Nel trappeto di Avola poi bisognò pagare oltre 70 operai per numerose giornate di lavoro, con salari che andavano da 10 grana a tarì 2.6.

          b) seconda fase: gestione di Pietro Puy. La costruzione del trappeto.

I costi per portare la cannamele ad Avola dovettero però sembrare assai pesanti, per la qual cosa si pensò di costruire un trappeto sul posto. La cosa coincise con il passaggio dell’amministrazione a Pietro Puy (22 febbraio 1643), un funzionario spagnolo all’epoca a Vittoria, dove ricoprì anche la carica di secreto. La superficie del cannamellito fu portata a 6 salme e furono ingaggiati 6 calabresi a tarì tre al giorno per fare le saie dentro e fuori l’arbitrio (cioè la superficie del cannamellito) e poi per pulire la vecchia saia che portava l’acqua da Cifali alla piantagione. 18 chiantaturi di ferro furono acquistati per piantare i talli. La piantime (fatta venire da Avola, con 55 muli) fu messa a dimora da una squadra di 36 avolesi, guidati da un cialauru6, tale Antonio Mantua. Zappatura, concimazione, irrigazione furono tutte operazione svoltesi da marzo a maggio e poi la sola irrigazione fino a tutto settembre. Ma già dai primi di aprile 1643 si era individuato il sito del trappeto. Per sceglierlo erano stati incaricati due mastri di Ragusa, con una cerimonia solenne alla presenza del barone Bernardo Valseca, mastro razionale del Patrimonio e del governatore don Francisco Echelbez, entrambi venuti in lettiga da Vittoria. I due amministratori erano accompagnati dai servi e da uno schiavo (di Echelbez) e furono preceduti dal suono di un trombettiere montato su una mula.

I mastri Silvestro Dierna, Francesco e Filippo di Marco, tutti di Ragusa, ebbero l’appalto per la costruzione del trappeto (e due di loro furono quelli che scelsero il sito). L’estensione della costruzione, è dimostrata sia dalla gran quantità di legname portato in parte da Cifali e in parte da Mazzarrone, dove fu lavorato sul posto da Vincenzo Mavila di Vittoria, sia dall’enorme quantità di tegole occorse per i tetti (ben 32.000), costruite a Vittoria da mastro Guglielmo di Modica, ciaramiraru e mattunaru.

I forni (in numero di 7) per cuocere le forme di terracotta contenenti la melassa, furono realizzati con mattoni (27.000, di cui 2.000 servirono per il pavimento dell’ambiente). Li costruì mastro Giovanni Gaudioso, fatto venire apposta da Palermo. Mastro Geronimo di Naro di Vittoria costruì i coperchi (129 per i conzi dei torchi del trappeto, impiegando in totale 225 rotoli di ferro (cioè 180 kg). 4 grandi mezze botti vecchie furono usate per impastare la creta per la costruzione dei forni. Altre attrezzature in ferro furono fornite da mastro Bernardino Milazzo. Le caldaie furono fatte venire da Palermo, via mare, a Pozzallo. Il trasporto fu organizzato da Giuseppe Pullarella di Modica, a mezzo di lettighe. Le caldaie in tutto erano otto: tre grandi (pesavano in tutto cantara 6 e rotoli 24, cioè circa 500 kg), 4 mezzane ed 1 piccola (pesanti in tutto cantara 9 e rotoli 6, pari a kg. 768). Dal costo elevato (3 onze) del fondo della maidda in cui veniva versata la melassa, si deduce la sua grandezza: era lunga infatti palmi 15 (cioè m. 3,75) e larga palmi 5 (m. 1,25), costruita da mastro Francesco Licitra, in noce.

Purtroppo abbiamo poche indicazioni per la parte che riguarda le macine. Sappiamo però che le mole furono fatte venire da Palermo via mare fino a Pozzallo e da lì trasportate a Scoglitti su due barche, con un compenso di onze 4 ai due patron Giuseppe Montalto e Domenico Messina. Tre mastri di Avola lavorarono 5 giorni per sbarcare le mole. Fu costruito un “ponte” per scenderle dalle barche e poi trasportarle fino al Cannamellito. Organizzò tutta l’operazione mastro Carmelo Oddo di Avola, che infine le calò nel trappeto (ebbe in tutto onze 5.1). Sotto la direzione di mastro Giovanni Gaudioso fu realizzata la gorga e la saja per la ruota che doveva far muovere le mole dei torchi (che sappiamo essere più di uno): per questo lavoro furono ingaggiati i soliti calabresi, esperti anche nella ripulitura della saja dopo la macina. Il lavoro della saia fu prezzato dal capomastro vittoriese Francesco Adamo (tutti i lavori vengono stimati da terzi).

Il tetto ed i due fusi (uno delle mole ed uno del torchio) furono realizzati con legname di Mazzarrone (dove andò a lavorare mastro Vincenzo Mavila con il figlio Antonino) e da mastro Luca (di cui non viene detto il cognome). Ogni fuso era alto palmi 30 (cioè metri 7,50) e per portare fuori dal fiume di Roccazzo (il Mazzarronello) l’albero da cui fu ricavato quello del torchio ci vollero 4 persone. Per stringere il conzo furono costruite sei stanghe (se il funzionamento era come quello del conzo dei palmenti, esse venivano inserite dentro il fuso in apposite cavità e girando attorno all’asse le mole si alzavano mediante una gigantesca vite). Numerosi tronchi di àlbano furono utilizzati per costruire le travi del tetto. Furono costruite in tutto 20 viti di legno (ma purtroppo ne ignoriamo la funzione e la posizione nei torchi). Dai tronchi di albano provenienti dal Passo di Cammarana furono realizzate altre travi per il tetto dell’edificio (lavorati dai mastri Stefano di Marco, Giovanni Bucchieri, Vincenzo e Francesco di Franco).

Il trappeto fu visitato a fine ottobre, durante il suo soggiorno a Vittoria da Giovanni Alfonso, allora viceré, nel corso della visita alla sua Contea. La venuta del viceré, accompagnato dalla moglie, da una figlia, dal figlio primogenito Giovanni Gaspare e dalla nuora, fu salutata dallo sparo di 60 maschi, ad opera di mastro Melchiorre Giunta.

La prima cotta fu fatta il 17 novembre 1643, alla presenza di don Francisco Bolle (procuratore del Conte), festeggiata dallo sparo di 100 maschi (ad opera di mastro Innocenzo Giarratana). Occorse una gran quantità di legname per la prima cotta, costata ben 80 onze e trasportata al trappeto da 69 bestie e 22 bordonari (pagati ad un tarì al giorno). Organizzatore di tutta la complessa opera di raccolta e cottura delle canne fu mastro Giuseppe Pensabene (che arruolò tutti gli operai, in gran parte di Petralia), mentre responsabile della produzione dello zucchero, cioè mastro degli zuccari, fu mastro Antonio la Scola. Oltre la prima cotta, ne sono documentate altre 15 (dall’11 gennaio 1644 al 18 febbraio), con un ritmo che è da immaginare infernale…
Dalla cotta dell’11 gennaio 1644, a mo’ di esempio, estraiamo le qualifiche degli operai impiegati, in gran parte di Petralia, Piazza, Melilli, e poi Vittoria, Modica, Vizzini, Cosenza, Ragusa: infanti paraturi per proiri e nesciri ciantimi; paraturi; picciotti di cogliere paglia dietro il paratore; tiratore di crocco; ammanacchiaturi; tagliaturi; figlioli che ritagliano nel tagliato; guardiano della porta del taglio; cufuneri; macinaturi; sintineri; pagliaroli; insaccaturi; coglipaglia di sacchi; culaturi di sacchi; infanti di conzo; infanti di cianca o buttaturi di paglia nella cianca; lavaturi di sacchi; sivalori; spuntaturi; fucalori; portaturi di caldaia; sciroppaturi; infanti di caldaia; tagliatore di cotta al telaio; strincituri di scumi; battituri di cotta; proituri di cotta; infanti di banco; mastro ripusteri.

Il gran numero di qualifiche (una trentina), ciascuna per un compito specifico e limitato, ci fa pensare ad una complessa macchina organizzativa, a segmenti di una vera e propria catena di montaggio che dalle canne del campo portava al prodotto finito: i panetti di zucchero. Dopo aver lavorato a compenso nella costruzione del trappeto e dei forni, ritroviamo anche mastro Filippo di Marco, salariato giornaliero come mastro di macina; ed anche mastro Giovanni Gaudioso, come mastro di fabbrica e cunzaturi di furna. A giornata risulta pagato anche un acqualoro di gorga (di Vizzini), garante del regolare flusso dell’acqua nella ruota per la macina.
I compiti degli operai non sono purtroppo specificati: di alcuni si intuiscono, di altri no. Una ricostruzione in generale del lavoro possiamo però delinearla lì dove delle qualifiche si è data la mansione, cosa che in parte ha fatto in un suo recente saggio Rosario Termotto7. Incrociando tali notizie con quelle forniteci dallo stesso Raniolo (pagg. 324-325), questa sarebbe la sequenza del passaggio della canna dalla raccolta al prodotto finito:

  1. taglio della canna ad opera di operai detti stoccaturi; quindi veniva mondata (cioè tagliata la cima per farne la piantime e la coda (la parte delle radici), ad opera dei munnaturi; ammucchiata in mazzi dagli ammanacchiaturi, era portata (carriata) al trappeto, dove gli infanti di cianca buttavano le canne sul tavolo inclinato del tagliatore che le riduceva in pezzi con un coltellaccio.
  2. I pezzi delle canne (caddozzi o rocchi), venivano ulteriormente ripuliti delle foglie residue dai paglialori di macina. Così preparati, i pezzi di canna venivano gettati dai paraturi (detti anche gittatori di taglio) sotto la macina per ridurli in poltiglia. Addetti a questo compito erano i macinaturi cioè gli addetti alla macina. La poltiglia di cannamele veniva quindi messa dentro le coffe (e trasportata da cuffalori) o in sacchi per essere sottoposta alla spremitura finale nel torchio, cui accudivano gli infanti di cuonzu (operai che giravano il fuso delle mole e facevano calare la cianca, se il meccanismo è uguale a quello dei palmenti).
  3. Il liquido frutto della spremitura colava nei tini sotto i torchi e veniva poi raccolto dagli insaccaturi con cati, buglioli o sische (secchi di varia grandezza) e gettato nelle caldaie per la bollitura, atta a fornire un primo prodotto grezzo, detto miele o melassa, mentre i culaturi di sacchi cercavano di recuperare le sostanze zuccherine di cui erano impregnati i sacchi (e le coffe) utilizzati per il trasporto della poltiglia. Il lavoro più delicato era quello della cottura, affidata al fucaloro, responsabile del governo del fuoco durante la cottura, aiutato da uno o più infanti di focu (o di caudara?). La bollitura era sorvegliata dagli sciroppaturi, che ne eliminavano le impurità, mentre i battituri di cotta erano addetti a levare la schiuma durante la cottura con appositi arnesi. Dopo la prima bollitura probabilmente la melassa veniva versata nella maidda, non senza averla prima filtrata più volte con appositi tessuti di albascio (m.ro Matteo Sparacino ne fornì 41 canne, cioè ben 82 metri) poi anche orbace. Mentre il torchio pressava, altri operai detti sentineri e cercaturi di scappaturi cercavano di recuperare quanto più possibile del prezioso liquido spremuto, finito o nella sentina cioè nel fondo della macina o in altri interstizi, in modo che nulla si perdesse, se possibile (della canna nulla si buttava: le foglie venivano utilizzate come concime)
  4. Dopo che la melassa (o miele) si era freddata, per ottenere lo zucchero occorreva cuocere la melassa nei forni. Questo infatti il significato del termine riscontrato nei documenti di cociri li furmi, contenitori di terracotta. Per il nostro Cannamellito ne furono ordinate 1200, realizzate ad Augusta dai mastri Giuseppe Balsamo e Matteo Greco e portate fino a Scoglitti su tre barche, insieme con 10 tini, numerosi cati, 25 buglioli e varie sische. Di queste prime cotte, un pane di zucchero (del peso di mezzo cantaro, cioè 40 chili circa) fu portata a Palermo come campione al viceré. Da quello che si capisce dalle relazioni del 22 febbraio 1645, c’erano diversi prodotti zuccherini (di parla di due tipi di pasta), da cui mischiati con creta ed acqua si poteva ottenere melassa o miele grosso da poter vendere al minuto (a tarì 20 il cantaro, cioè a 5 grani a rotolo). Lo zucchero di buona qualità era un pregiato e costoso prodotto con usi molto limitati e destinato a consumi interni, diretti principalmente verso il settore medico aromatario. Era in genere venduto a 5 tarì al chilo (2 giornate di lavoro).


Il Cannamellito di Vittoria non ebbe molta fortuna. Subito dopo l’inaugurazione, ai primi del gennaio 1644, si dovette intervenire per gravi danni alla struttura forse causati dal maltempo; inoltre il clima freddo dell’epoca non favorì una coltivazione che aveva bisogno di climi tropicali o subtropicali. Al freddo e alle gelate di quei due anni 1643 e 1644 i due mastri fatti venire da Melilli (Antonino Passanisi, curatolo del cannamellito di Medoro e San Cusmano) e da Paolino Mazzone (curatolo del cannamellito di Avola) addebitarono infatti la cattiva riuscita degli zuccheri di Bosco Rotondo e non diedero alcuna prospettiva di futuro nel momento in cui fecero scrivere che «il sito del trappeto come anche tutto il terreno di detto feudo dicono che sarebbe buonissimo se non ci fossero le gelate». Molti autori hanno addebitato il crollo dell’industria saccarifera siciliana alla concorrenza degli zuccheri prodotti dalla Spagna nelle Indie con la manodopera schiavile, con prezzi di produzione stracciati rispetto all’alto costo della manodopera libera della Sicilia. Ma forse hanno trascurato, secondo quanto scrive Petino, il clima, che non era certo quello tropicale o sub-tropicale necessario.

Altro fatto importantissimo è che, mentre il periodo richiesto dalla canna per maturare è di circa 12 mesi nelle zone tropicali e sub-tropicali, e ne sono sufficienti 9 in quelle equatoriali, in Sicilia, secondo le indagini effettuate in proposito dal Bianca, la raccolta si era sempre praticata intorno al 10° mese di vegetazione «onde evitare che il sopraggiungere dei rigori invernali compromettesse la vita dei futuri germogli». Inoltre, occorrevano anche enormi quantità d’acqua e di legna per la raffinazione. L’attività del Cannamellito cessò dunque ai primi del 1645. Il 22 febbraio fu redatto l’inventario dei beni e di zucchero non si parlò più. Ma rimase il nome alla contrada…

***

Del feudo si parla nel rivelo del Conte del 1811-16, diviso tra la Contea ed il Monastero di Santa Lucia di Siracusa. In parte l’ex feudo risulta concesso in enfiteusi al barone don Bartolomeo Ferreri di Comiso, con un censo al Conte di Modica pari ad onze 200. Ad inizio degli anni ’50 dell’Ottocento, Bosco Rotondo -come ci dice Orazio Busacca- risulta in «proprietà del Signor don Antonio Iacono fu Giacchino» e Cannamellito (salme 38) in mano a don Ferdinando Jacono (1804-1863). Don Ferdinando Jacono ne piantò 24 salme a vigne poi nel 1859, convintosi di non potercela fare a coltivarle, per l’alto costo della manodopera e non volendo utilizzare la nuova invenzione del cosiddetto aratro a scocca fatta da Orazio Busacca8, le divise in 24 lotti e li vendette ad altrettanti coltivatori, fra cui lo stesso Busacca. Per sé trattenne però una parte delle vigne, che fece coltivare con la zappa, nel modo tradizionale. Ma appena si accorse che le vigne concesse, coltivate con l’aratro a scocca avevano una migliore vegetazione, pentitosi, fece di tutto per rientrare in possesso delle vigne, avendo buon gioco a recuperarle in quanto la vendita era stata rateale ed era stata pagata solo la prima rata. Per questo i suoi eredi, sia Jacono di Comiso che Jacono-Rizza di Vittoria (questi ultimi avevano costruito sul posto una villa, chiamata appunto Villa Jacono) risultarono proprietari dei terreni espropriati per la costruzione del nuovo aeroporto, intitolato al gen. Vincenzo Magliocco, ucciso in un agguato in Abissinia nel novembre 1936. Inaugurato da Mussolini il 14 agosto 1937, dopo l’entrata in guerra dell’Italia fu usato dall’aviazione italiana e tedesca per bombardare Malta. Più volte colpito dagli Inglesi tra il 1941 ed il 1942, fu completamente distrutto tra il maggio ed il luglio 1943. Riutilizzato come aeroporto civile negli anni ’60, fu chiuso definitivamente nel 1973.
Nel 1981 l’area fu scelta come base missilistica per i missili Pershing e Cruise, suscitando un grande movimento pacifista che vide Comiso sede di imponenti manifestazioni di massa (tra esse quella del 4 aprile 1982, organizzata da Pio La Torre, segretario regionale del Pci, assassinato il 30 aprile successivo). In seguito all’avvento di Gorbaciov in Urss, grazie agli accordi del 1987 tra lui e Reagan, la base fu smantellata. Da allora, gli amministratori del Comune di Comiso iniziarono la battaglia per farne un aeroporto civile durata fino al 2013, quando finalmente il primo aereo atterrò nel suolo dell’antico Cannamellito trasformato in pista aeroportuale.

 

NOTE

1] Sulla vicenda cfr. Giancarlo Francione, Aquile sugli Iblei. Storia dell’aeroporto di Comiso dalle origini al 10 luglio 1943, 2008
2] Uno dei coloni insediato a Bosco Rotondo era Benedetto Spataro, cognato di Paolo Custureri, primo secreto di Vittoria.
3] L’ex feudo di Bosco Rotondo, esteso salme 797 (cioè 1404 ettari) confina con le contrade Micciché, Fontana Volpe, Corallo e Niscima.
4] Per un totale di 200 onze su oltre 2000.
5] G. Bianca, Monografia agraria del territorio di Avola
6] Una sorta di stregone e indovino, capace di comandare alle bestie…
7] Rosario Termotto, Contratti di lavoro e migrazioni stagionali nell’industria zuccheriera siciliana, Mediterranea 2012 (on line)
8] L’aratro a scocca consisteva in un aratro di ferro tirato da un solo animale, adatto pertanto alla vigna

 

 

 

 

.

Translate »
Plugin WordPress Cookie di Real Cookie Banner