giovedì, Novembre 21Città di Vittoria
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f) Serra San Bartolo

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Il Parco di Serra San Bartolo e il Museo del Carrubo e della Civiltà Contadina. Il Velodromo a Montecalvo.

Allo sbocco dell’antica strada dei Comisani (che portava da Comiso a Terranova), alla fine degli anni ’80 del Novecento, fu realizzato un nuovo Parco extraurbano. Al suo interno era ubicato il Museo del Carrubo e della Civiltà Contadina. collocato in una masseria situata al centro di un vasto podere coltivato a carrubeto e uliveto, un esempio di architettura rurale tardo ottocentesca (oggi il Museo è chiuso, in attesa di essere ristrutturato).

La contrada San Bartolomeo, posta lungo importanti strade di comunicazione, è nota nei documenti sin dal 1573 e sin dai primi del Seicento vi si trovano alcuni enfiteuti di origine chiaramontana (tra essi tale Giuseppe Fatuzzo alias Pasco (che poi diede il nome alla contrada Pasqui) e modicani, fra cui don Pietro Settimo e poi i baroni Vassallo di Modica, che ne divennero feudatari. Dai Vassallo, per vie di matrimonio, nel 1790 risulta nelle mani del patrizio palermitano don Benedetto Emmanuele e Gaetani, figlio del più famoso marchese di Villabianca, prolifico cronista di fine Settecento, i cui diari furono pubblicati nella raccolta di Gioacchino Di Marzo negli anni ’70 dell’Ottocento. L’ex feudo era esteso circa 180 salme. Negli anni Novanta del Novecento è stato realizzato un Velodromo in contrada Montecalvo, a confine con San Bartolomeo (anch’esso in attesa di ristrutturazione e recupero).

Box. Il carrubo nel paesaggio agrario e nella storia di Vittoria.

L’Ottocento, assieme al vino, fu per Vittoria anche il secolo delle carrube. Nel suo famoso Giornale del viaggio in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica del 1808, l’abate Paolo Balsamo, professore di economia all’Università di Palermo, scrive che la campagna di Vittoria «produce proporzionatamente poco di frumenti, orzi, e legumi, e molto di olio, canape, carubbe e sopra tutto di vino, il quale ha molto credito…». Nella prima pubblicazione ufficiale di dati economici che si conosca su Vittoria, la cittadina appare dunque come grande produttrice di carrube. La stessa cosa dirà nel 1855 Gioacchino Di Marzo nella sua integrazione sub voce all’edizione del Dizionario Topografico della Sicilia dell’abate Vito Amico del 1757, produzione confermata anche nella famosa inchiesta Jacini del 1885. Per tutto l’Ottocento il carrubeto caratterizza con le sue forme imponenti anche il paesaggio agrario di Vittoria. Ma anche nel Novecento. Scriveva Emanuele Mandarà nel 1993, che «dei 6.216 ettari di carrubeti di quarantacinque anni fa», la nostra provincia «ha visto quasi dimezzate -tra distruzioni, abbattimenti ed altro- le superfici in ciò specializzate». Fortunatamente il legislatore ha cercato di porre un argine all’ulteriore distruzione di quello che sembrerebbe essere un elemento tipico delle nostre campagne. Ho usato volutamente il condizionale perché, in realtà, il carrubo nell’area di Vittoria è recente. Se si pensa che persino il ficodindia, così “siciliano”, non è anteriore alla scoperta dell’America, non c’è da stupirsi che ciò che oggi ci appare esistere da sempre nel nostro paesaggio agrario, invece fino a qualche secolo fa non esisteva per niente. Ben poco infatti nelle nostre terre è spontaneo. Il nostro paesaggio agrario è il frutto di millenni di esperimenti e di stratificazioni storiche e sociali, di cui le piante oggi esistenti sono eloquenti e tenaci testimoni. Un esempio è il carrubo. Il cui nome, di origine araba, non significa però che prima non lo si conoscesse. Il suo nome scientifico in latino è ceratonia siliqua, ma Columella e Plinio lo chiamano siliqua graeca, attestandone la presenza in Sicilia in epoca tardo-repubblicana ma dal nome riferendola alla più antica cultura siceliota, cioè dei Greci di Sicilia. La grande diffusione della pianta nell’Isola col nome arabo di kharrub significa, secondo alcuni studiosi, che gli Arabi introdussero una varietà a frutto migliore, che sostituì la varietà indigena. Il nostro paesaggio agrario negli Iblei, grazie alla varietà araba, è divenuto quello che oggi ancora guardiamo. Ma per Vittoria possiamo seguire la diffusione dell’albero anche attraverso i documenti storici. Pochi, ma significativi…

Oggi il paesaggio agrario che più denota le campagne vittoriesi, soprattutto verso il mare è quello delle serre. Verso Comiso e Chiaramonte è ancora quello tradizionale: viti, oliveti, agrumi. Sempre più rado il carrubo. Ma prima non era così. Il documento storico più antico che oggi conosciamo sul territorio di Vittoria, da me letto in un farraginoso carteggio chiaramontano, è tratto dal cosiddetto Quinterno del 1409, fatto redigere da Bernardo Cabrera. In esso si legge che l’odierno territorio di Vittoria era occupato in gran parte dalla «foresta di Cammarana», chiamata anche di «Boscuplanu, lu quali est d’arbori di suvari». Le grandi querce da sughero però si affiancavano a numerose varietà di pini e alla ricchissima macchia mediterranea.

Gli alberi da frutto come il limone, l’arancio (introdotti dagli Arabi nel X secolo), i mandorli, l’olivo (che nella nostra zona era presente ben prima della colonizzazione dorica, ma di cui i Greci perfezionarono la coltura), la vite (anch’essa in epoca greca conobbe grande splendore) e il carrubo, che rendevano già nel Cinquecento un grande giardino la Valle dell’Ippari, sono tutti frutto delle trasformazioni o per meglio dire della creazione da parte dei nostri antenati del paesaggio agrario in cui oggi viviamo. Ben prima della fondazione di Vittoria, a partire dal 1550, la grande foresta e il bosco appaiono però già aggrediti dalle censuazioni, grazie alle quali i coloni aprono nella boscaglia fertili radure e chiuse con alberi “domestici”. Alle grandi querce, alle infinite varietà di pini, al bosco e al sottobosco mediterraneo, si sostituiscono a poco a poco i maggesi, le viti (già nel corso del Seicento a milioni, sempre in base ai documenti), gli olivi, i carrubi. Un processo ininterrotto che continua nel Settecento, come recita un documento vittoriese del 1714, in cui si descrivono i beni di un tale Luciano Spinella che, tra le altre cose, possiede «salma una di terre scapule con n.ro cinque piedi di carrubbe e due d’olive…in qontrata delli Maritaggi». E così via in numerosi altri riveli in cui la coltura della vigna è intrecciata con la piantumazione di carrubi e olivi. La presenza storica del carrubo nella zona è attestata anche dalla gustosa astuzia con cui i Chiaramontani cercarono di confondere le acque durante la famosa controversia territoriale con Vittoria per il possesso di Boscopiano, che durò dal 1684 al 1764. Infatti, quando nel 1639 la Corte Patrimoniale di Modica aveva assegnato a Vittoria il territorio entro cui riscuotere le gabelle, dalla parte di Comiso e Chiaramonte, lungo «il violo del Comiso» (l’attuale strada provinciale Comiso-Grammichele, che da Comiso scende nella Valle del Dirillo e porta a Grammichele) fu scelto come punto fondamentale un grande carrubo, appunto la «carrubba di Niscima», contrada oggi di Vittoria. Quanto imponente e visibile da lontano doveva essere quel carrubo, per fungere da stabile confine fra due popoli! Ma venuti a contesa i Chiaramontani con i Vittoriesi per il possesso di alcune terre a confine tra le due città a cominciare dal 1684, ecco che un bel giorno «quell’albero venne sbarbicato fin dalle radici, da chi avea interesse di farlo sparire» (La China, che accusa in maniera elegante i Chiaramontani…). E così il carrubo che prima con la sua presenza aveva definito un confine, con la sua assenza diede luogo ad un’aspra controversia per il territorio che fortunatamente si svolse tutta nei tribunali, ma che in altri tempi avrebbe visto sprizzare scintille di guerra…

Nel passato, l’uso delle carrube era esclusivamente rivolto agli equini, come nutrimento. Nonostante le drastiche riduzioni nella produzione dovute allo svellimento e alle trasformazioni agrarie dell’ultimo cinquantennio (prima l’agrumeto, poi le coltivazioni ortoflorofrutticole), ancora oggi la produzione siciliana copre il 92% di quella nazionale. Oggi c’è però una riscoperta dei semi del carrubo, assai usati nell’industria come dolcificanti, addensanti, come sostanze tanniniche, per produrre alcool etilico (anche a Vittoria negli anni ’50 i Giuffrida di Pozzallo avevano aperto una distilleria in via Gen. Diaz), per usi dietetici, nelle industrie farmaceutica, alimentare, dolciaria, e persino conciaria. Chissà che le nostre campagne non tornino come prima a ricoprirsi di questi maestosi alberi…

 

 

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