Breve storia del vigneto vittoriese.
Antonino Buttitta nel volume Sicilia. L’isola del vino, a pag. 45, dopo aver accennato alle notizie riferite da Tommaso Fazello sui vini siciliani nel Cinquecento e nel Seicento, scrive: «Estremamente esigue sono le notizie sulla produzione e il commercio del vino nella Sicilia del sec. XVIII».
Forse ciò è vero per altre zone, ma non per Vittoria. Infatti, grazie ai riveli (censimenti dal 1616 al 1816), totalmente studiati e trascritti, noi conosciamo tutta intera la storia del nostro vigneto, della progressiva conquista delle campagne, della nascita e della crescita della nostra economia, della “costruzione” della città e dello scaro a mare di Scglitti. Infatti Vittoria nasce per produrre vino. Lo dicono specificamente la fondatrice Vittoria Colonna e i suoi amministratori, quando al punto 7) delle Grazie e Franchigie scrivono che a coloro i quali intendessero piantare una vigna fosse data una salma di terra (cioè circa 3 ettari), al prezzo annuo di quattro tumoli di frumento (cioè 53 kg), da versare come terraggio all’Amministrazione Comitale. Una concessione generosa che, al contrario delle condizioni vigenti in altre terre, fu una formidabile attrazione per tanti coloni provenienti da decine di altri paesi e città della Sicilia, della Calabria ed anche di Malta. Dal 16 gennaio 1608 furono assegnate le terre. I coloni dovevano ripulire il terreno, sistemarlo, piantare la vigna con un sesto di ml. 1,50, con i filari piantati secondo l’antico sistema latino “a quincunce”, che occupava la superficie di un tumulo e un mondello a migliaro, cioè viti 1000 su 2.188 mq. La città nasce sì a Boscopiano, ma i nomi delle contrade erano Giummarito, Pozzo di Scorcio, Pozzo di Mezzasalma, Scalunazzo etc. etc. (cfr. Paolo Monello, “Le Carte Costituzionali per la fondazione di Vittoria”, Vittoria 2007). Attorno al nucleo fondamentale della nuova Terra sorgono dunque i primi vigneti. Non abbiamo il nome dei vitigni per il ‘600, ma certamente i coloni dovettero portarli dalla zona da dove provenivano o prenderli dai luoghi vicini, da Comiso e Chiaramonte soprattutto. Dal 1616 comincia il cammino trionfale del vigneto vittoriese, con già 230 m.ra migliara di viti su 50 ettari (calcolo l’ettaraggio sulla superficie coperta da un migliaio di viti). Nel 1623, data del secondo rivelo (completo), abbiamo 992 m.ra di viti su una superficie di 217 ettari. Nel 1638 (rivelo completo), si registrano 2.021.000 viti su 441 ettari. I dati del 1651 (che riportano circa 1.500.000 viti circa) sono incompleti, come lo sono quelli del 1682 (solo 555.000 viti registrate).
I dati dei riveli dal 1616 al 1651 sono stati elaborati dal prof. Giuseppe Raniolo (cfr. Vittoria dal 1607 agli albori del Settecento, Vittoria 1990), cui nel 1986, da sindaco, affidai le prime ricerche; i dati dal 1682 al 1748 sono stati invece elaborati da chi scrive, avendoli fatti duplicare in microfilm presso l’Archivio di Stato di Palermo, dai fondi della Deputazione del Regno e del Tribunale del Real Patrimonio. La progressione è continua. Nel Seicento il vigneto si espande attorno alla città, mentre ancora grano e orzo vengono seminati nella fascia costiera e nella valle del fiume di Cammarana, assieme agli agrumi e alle fibre tessili. Ma nel 1714, data del rivelo ordinato dal nuovo re Vittorio Amedeo di Savoja1, Vittoria ha allargato i suoi vigneti lungo la costa, appena dietro le dune sabbiose, sia nell’interno verso Chiaramonte, con la quale ingaggerà una dura controversia territoriale durata ben 80 anni e terminata nel 1764 con la conferma a Vittoria di vaste porzioni di territorio, fra cui le maggiori contrade vinifere: Bastonaca, Bonincontro, Pettineo, Santa Teresa, Fossa di Lupo etc. etc.
Il rivelo del 1714, pur incompleto (ne possediamo solo due volumi su sei) registra ben 6.381.517 viti in 47 contrade, da Anguilla a Scaletta a Forcone, Salmé, Pozzo Bollente etc., per 1.400 ettari certi. Dai documenti emerge anche un notevole commercio con l’isola di Malta. Il rivelo del 1748 è fortunatamente completo (si tratta di ben 15 volumi, che mi ci è voluto almeno otto anni per trascrivere). In 54 contrade sono registrate più di 13.000.000 di viti, pari a circa 3.000 ettari di superficie! La produttività però è sempre la stessa dal 1623: 4 barili a migliaro. Per cui possiamo presumere che nel 1748 si produssero 43.520 hl di mosto (pari a barili 54.400), per una produzione di vino, se è giusta la proporzione del 70%, di 30.000 hl. Un quantitativo notevole, per quei tempi. Notevole anche perché prodotto in 2.131 partite di terra, con una media di 6 m.ra a partita. Nel 1749 sono registrati in tutto il territorio di Vittoria anche 195 palmenti.
La città, grazie alle sue produzioni, diventa famosa. L’abate Vito Amico ne parla nel suo Lexikon Topographicum Siculum del 1757. Non conosciamo i nomi dei vitigni impiantati nel Seicento. In un documento del 1708 troviamo nominata la guarnaccia2, mentre nel 1714 abbiamo il moscatello e la malvasia3. A Domenico Sestini, bibliotecario del principe di Biscari Ignazio Paternò Castello, dobbiamo una accurata elencazione dei vitigni in uso a Vittoria nella sua memoria intitolata I vini della Vittoria pubblicata dall’Accademia dei Georgofili nel 1812, ma risalente al periodo 1770 -1775: essi sono frappato, calabrese4, grosso nero, il cataratto e la visazzara: uve tutte che mischiate insieme costituivano un’ottima qualità di vino rosso o nero.
Dopo Sestini, fu la volta di Paolo Balsamo, che arriva a Vittoria una prima volta nel 1792 (e scrive che da Scoglitti quell’anno erano state spedite a Malta 12.000 botti di Palermo, pari ad oltre 132.000 hl (165.000 barili) di vino! Lo studioso individua con occhio acuto, nella sua seconda visita del 1808, la caratteristica dell’economia vittoriese: la piccola e media proprietà, che nella coltura pregiata del vigneto ha saputo creato un diffuso benessere. Balsamo era fautore della grande proprietà libera dai vincoli feudali e l’esperienza di Vittoria lo mise un po’ in crisi…Penso comunque che gli sia servita nel dare corpo alla sua ulteriore battaglia per l’abolizione del feudalesimo e nell’elaborazione della parte economica delle basi della Costituzione siciliana del 1812. Proprio la presenza inglese tra il 1806 e il 1816 provocò un’ulteriore impennata del commercio del vino, di cui beneficiò anche Vittoria, che poi, come tutta la Sicilia, cadde in crisi quando gli Inglesi lasciarono l’Isola nel 1815. Fu allora che il nostro vino ebbe la sua prima denominazione specifica. Si chiamò infatti “Scoglitti” perché, nel 1816, il barone Francesco Contarella, un liberale, riuscì a piazzare a Genova 5.000 hl di vino, imbarcandoli direttamente da Scoglitti, anziché, come era consuetudine, da Messina, dando un formidabile impulso al commercio vittoriese. Da allora infatti il nostro vino si chiamò “Scoglitti”. Ma su Vittoria sin dal 1825 mise gli occhi Benjamin Ingham, che risulta insediato a Giardinazzo con un “lambicco” già prima del 1830 (ma una più antica distilleria sorgeva già a fine Settecento alla Scaletta dei Ricca). In ogni caso i carri di Ingham percorrevano la trazzera detta di Burgaleci, che da Cicchitto portava a Scoglitti. Ingham chiese allora al Decurionato di rendere rotabile il tratto Vittoria-Cicchitto, cosa che fu realizzata nel 1835-1837. Con la crescita del vigneto la città riorganizza il suo territorio, sistemando la rete delle trazzere, costruendo, assieme alla nuova strada per Scoglitti, il ponte a Torrevecchia, prosciugando il lago della Bordoneria (cioè la zona dell’attuale quartiere detto Forcone-Marangio).
Lo sviluppo del vigneto acquista ritmi impressionanti grazie agli effetti causati dalla legge doganale del 1824, fatta per punire la Sicilia della sua ribellione del 1820, relegandola a zona agricola e produttrice di materie prime, mentre il Napoletano avrebbe potuto industrializzarsi. Ma per Vittoria fu una fortuna, anche dovuta alla distruzione dei vigneti del continente a causa dell’oidio, che costrinse i commercianti napoletani a rifornirsi obbligatoriamente del nostro vino. Negli anni Quaranta il prezzo del vino quadruplicò. A fine anni Cinquanta non bastavano più tutti i carri esistenti a Vittoria per trasportare il vino a Scoglitti né per lavorare le terre bastavano i braccianti vittoriesi (fu llora che Orazio Busacca inventò l’aratro a scocca, che consentiva di arare un fondo con poca spesa). Dal 1850 al 1862 a Giardinazzo operarono anche i Florio, che poi vendettero alla ditta o Ingham-Withaker, che ampliò la piccola distilleria dei Florio (oggi se ne vedono i tristi resti nei pressi della rotonda di via Pietro Gentile). Secondo Salvatore Contarella (cfr. Il presente e l’avvenire dei vini Scoglitti, in Nike 2004) il vigneto nel 1875 occupava 40.000 dei 60.000 ettari che costituivano il territorio di Vittoria, Chiaramonte, Comiso e Biscari, dove vivevano 45.000 persone. 200.000.000 di viti producevano 400.000 hl di cui:
- 40.000 per mercede dei braccianti
- 45.000 per consumi degli abitanti
- 50.000 per distillazione.
Cosa fare dei residui 175.000 hl? Non c’era ancora la ferrovia, che avrebbe potuto portare il vino a Siracusa! Contarella indicava l’esempio della Francia, che vinificava in migliori condizioni igieniche e aveva creato una serie di vini pregiati, mentre i vini di Vittoria erano essenzialmente da taglio e servivano a dare corpo e colore ad altri vini. In ogni caso, nonostante i limiti della commercializzazione, gli anni ’40-’80 furono una vera e propria epoca d’oro, il cui maggiore emblema è forse proprio il Teatro, costruito da una combattiva e colta borghesia “vinaiola”, come la definì Luigi Frasca. Forse non è del tutto sbagliato parlare di “civiltà del vino”, perché per circa tre secoli Vittoria e i suoi abitanti hanno vissuto in una realtà dominata e decisa nelle sue necessità e nelle sue conquiste dal vigneto. Dalle forme del lavoro (braccialieri, metatieri, innestatori, bottai, bordonari, operai, carrettieri, carradori), ai rapporti di lavoro (padroni, gabelloti, commercianti, agenti di commercio), agli utensìli domestici (piatti, carrate, bollitori in rame etc.), ai proverbi e modi di dire, a speciali termini dialettali, alla gastronomia, ai dolci collegati al mosto e al vino, alle forme dell’abitare (i caratteristici bagli nelle contrade, con le case per i padroni, il palmento e i dormitori per i metatieri; le case con la carretteria al fianco), alla viabilità (la vastissima ed intricata rete delle trazzere comunali e regie), alle infrastrutture (le distillerie, la ferrovia, lo scaro di Scoglitti), allo sviluppo generale della città (il P.R.G. di Rosario Cancellieri, con l’esplosione della decorazione ispirata alla vite e all’uva), alla politica stessa, basata e condizionata dai bisogni quotidiani di migliaia di piccoli e medi produttori, articolata dal 1860 in poi in due grossi gruppi sociali e di interessi contrapposti, riferendosi i cancellieristi alla Sinistra e gli jaconisti alla Destra Storiche. Tutto questo però fu messo in discussione dall’agosto 1886 con la comparsa della fillossera in un vigneto di contrada Torrevecchia, nella valle dell’Ippari.
Fu l’inizio della fine di tutto un mondo, che portò rovina e miseria a migliaia di piccoli produttori e creò vaste masse di disoccupati. Pur ricostruito grazie ai nuovi vitigni americani, il vigneto vittoriese dei primi del Novecento non fu più quello di prima. Lo stesso proliferare di distillerie (cfr. lo studio Perucci) è simbolo di crisi: si produceva vino al solo scopo di bruciarlo e distillarlo. Ma il declino, rispetto all’epoca d’oro, è inarrestabile. Secondo i dati forniti dall’enotecnico Arcangelo Mazza, nel 1910 erano coperti a vigneti oltre 11.000 ettari (su circa 17.000 componenti il territorio comunale), con una produzione di circa 250.000 hl. Nel 1929 ne sono registrati 8.093 (cfr. Pastena), ridotti a 3.700 nel ’57-’58. La guerra bloccò la commercializzazione, arrecando gravissima crisi, da cui il vigneto non si risollevò più. Il 1° febbraio 1948, l’A.C. Traina organizzò un grande convegno regionale sul vigneto, ma non si smosse nulla. Negli anni ’50 si sviluppò un vivace dibattito tra i produttori sui modi come superare la crisi. Dapprima si diede la colpa ai sofisticatori e si chiese l’aumento dell’imposta di fabbricazione sullo zucchero, il controllo sulla vendita di quantità superiori a 20 kg (mi è sembrato di rileggere le vicende di oggi, quando di impreca contro la presunta importazione di pomodoro “triangolato” da paesi extra-comunitari e si invocano misure protezionistiche!). Poi prevalse il buon senso e si cominciò a ragionare di “vini-tipo”, di migliori modalità di vinificazione, di consorzi, di cantine sociali. In merito al “vino-tipo” si propose un nuovo nome, quello di “cerasuolo”. In verità il primo a parlare di vini cerasuoli (al plurale) è Orazio Busacca, nelle sue Effemeridi scritte tra il 1850 e il 1896, ma a quanto risulta dai documenti, il primo che ne usò il nome in un’etichetta di bottiglia fu il cav. Giuseppe Di Matteo, che nel 1950 imbottigliò vino con i nomi di “Cerasuolo-Bastonaca” e “Cerasuolo-Santa Teresa”, e che chiese all’on. Salvatore Ricca, deputato regionale, di proporre una norma per il riconoscimento.
L’Ars nel 1951 votò una proposta in tal senso indirizzata al Senato, ma non se ne fece nulla. Solo nel 1973, il “Cerasuolo di Vittoria” ebbe il suo riconoscimento di legge come D.O.C.. Ma ormai era diventato un prodotto quasi di nicchia, come diremmo oggi. Nel 1970 infatti troviamo esistenti solo 1.881 ettari di vigneto (su 4527 nella intera provincia di Ragusa, pari al 41,55%), scesi a 1.355 (il 41,11% del totale) nel 1982, ridottisi ulteriormente fino ai primi anni 2000, quando però inizia il recupero, favorito dal fatto che numerose aziende produttrici confluirono in gran parte nel Consorzio del Vino Cerasuolo e dalla concessione nel 2005 della D.O.C.G..
In base ai dati ISTAT 2010 nel territorio di Vittoria sono presenti vigneti della superficie di ettari 732, su un totale di 4.500 circa nel ragusano, pari al 21%. Siamo sicuri però che i dati attuali confermino la nuova ascesa del vigneto nel Vittoriese.
Oggi per il vigneto ed il vino vittoriese è un grande momento: ecco perché il vigneto vittoriese può avere anche un grande avvenire, oltre che un grande passato5
NOTE
1] A seguito del trattato di Utrecht del 1713, che mise fine alla guerra di successione spagnola scoppiata nel 1702, la Spagna dovette rinunciare al Regno di Sicilia, che venne assegnato al duca di Savoja, che fu pertanto promosso a re.
2] Vino bianco.
3] Vino pregiato, prodotto soprattutto nelle isole Eolie. Il nome deriva da una cittadina del Peloponneso, Monemvasia, da dove fu portato il vitigno (Braudel).
4] Nome di non precisa identificazione, con varianti con calaurisi, cavaulisi, oggi conosciuto come nero d’Avola
5] Alla storia del vigneto vittoriese ho dedicato il saggio intitolato La civiltà della vite e del vino a Vittoria. Ascesa, tramonto e rinascita dell’”oro rosso”, che ho intenzione di fare stampare a breve.
6] Dati tratti dalla XXXI Conferenza Italiana di Scienze Regionali, Nuovi scenari della vitivinicoltura siciliana, a cura di S. Bacarella e G. Nicoletti.